150 anniversario dell'Unità d'Italia...non fiori ma opere di bene...

sabato 19 marzo 2011

La memoria tradita del Risorgimento





Di Paolo Flores d'Arcais, (Il Fatto quotidiano, 16 marzo 2011)

“L’Italia è solo un’espressione geografica” sosteneva il conte Klemens Wenzel Nepomuk Lothar von Metternich-Winneburg-Beilstein (dal 1813 anche principe). “L’Italia è fatta, bisogna ora fare gli italiani”, dichiarò il patriota e scrittore Massimo Taparelli marchese d’Azeglio, quando decenni di sovversione rivoluzionaria mazziniana e garibaldina, e di abilità diplomatica cavouriana, umiliarono il cinismo del cancelliere dell’impero austro-ungarico.
Che viene riportato agli onori della riabilitazione, paradossalmente e vergognosamente, proprio durante le celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia: non da qualche grande storico in vena di rivisitazioni geopolitiche ma dall’ignorante berciare del padre di un “trota” e di schiamazzanti patrioti dell’evasione fiscale.

Spettacolo avvilente, reso possibile però anche da uno sfondo storico-antropologico: la “Nazione”, la “Patria”, gli italiani l’hanno sempre sentita assai poco. Perché non è mai divenuta identità comune, e anzi è stata spesso immiserita nella retorica propagandistica di governi e regimi, infangata per spedire milioni di giovani come carne da cannone in due “inutili stragi”.

L’identità di un Paese nasce dalla memoria condivisa. E una memoria condivisa è sempre e soltanto una memoria scelta. Non può essere mai costituita da “tutto il passato”, che è ovviamente contraddittorio, impregnato di lacerazioni e conflitti, frutto di valori antagonistici fino alla guerra civile. “Notre héritage n’est précédé d’aucun testament”, ha scritto uno dei più grandi poeti del novecento, René Char, esprimendo la verità dell’identità storica nella sua forma più essenziale e irrecusabile. Di che cosa essere eredi lo si sceglie, discriminando nel contraddittorio e incompatibile intreccio di eventi che ci hanno preceduti quelli che hanno per noi valore simbolico perché fondativo.

L’Italia democratica può diventare “Nazione” o “Patria” solo se sceglie di essere davvero erede di entrambi i due unici eventi fondativi del suo passato. Il Risorgimento, e quel secondo Risorgimento (come tale vissuto da tanti che vi sacrificarono la vita) che fu la Resistenza antifascista. Fino a quando queste due rotture storiche, e i valori che ne sono all’origine, non saranno interiorizzati come la propria comune eredità dai cittadini della penisola, fino a quando ogni nuova generazione, in famiglia, nella scuola, attraverso il tubo catodico, non crescerà sentendosi figlia del Risorgimento e della Resistenza, non ci saranno italiani e non ci sarà Italia, e il conte Klemens von Metternich avrà ogni agio di ghignare nella tomba.

Ma la memoria, per essere condivisa, non deve escludere nessuno. Deve accomunare tutto il passato, affratellare vincitori e vinti, replicano gli storici più o meno di regime, più o meno accademicamente titolati o improvvisati, i Mieli, i Romano, i Galli della Loggia, i Pansa. I garibaldini, dunque, ma anche i lazzaroni del cardinal Ruffo, i partigiani ma anche i giovani repubblichini di Salò, arriva a farnetica re qualcuno. Al contrario. Nessuna identità nazionale, dunque nessuna “Patria”, potrà mai nascere su valori che reciprocamente si escludono. Il confronto con la vicina Francia può essere illuminante.

Ogni edificio pubblico porta la scritta, spesso in lettere dorate, “Republique française: liberté, egalité, fraternitè”. Esclude cioè dalla memoria condivisa le masse che si rivoltarono contro la rivoluzione, i contadini che per la Vandea morirono, coraggiosamente e anche eroicamente, come è ovvio. L’identità della Nazione, della Patria, quella del “vive la France!” con cui il generale De Gaulle concludeva ogni suo discorso, viene riconosciuta esclusivamente nel testamento della rivoluzione, tanto che se ne adotta la bandiera e di un canto di insurrezione si fa l’inno nazionale. La rivoluzione è l’unica memoria comune, l’altra sarebbe solo memoria del tradimento della Nazione, benché della rivoluzione faccia parte il Terrore, la cui condanna è resa topograficamente esplicita: non una via o una piazza sono intitolate a Robespierre.

Identico discorso per la Resistenza. Il governo collaborazionista di Vichy è il tradimento per antonomasia, benché il maresciallo Petain venga insediato legalmente dal voto maggioritario di un parlamento liberamente eletto. De Gaulle, uomo di destra se ve ne fu uno, ha imposto l’equazione Resistenza eguale Patria e rifiuto della Resistenza eguale tradimento, e questa memoria condivisa ha avuto una tale efficacia che a tre generazioni di distanza la destra francese anche più becera preferisce (durerà?) perdere le elezioni pur di non accettare il sostegno dei Le Pen.

In Italia invece il Risorgimento è stato immediatamente edulcorato nella retorica. Il carattere eversivo, rivoluzionario, talvolta terroristico dei garibaldini e dei mazziniani è stato cancellato, benché Mazzini e Garibaldi fossero accomunati a Marx e Bakunin dalle polizie di tutto il mondo, e le divergenze reciproche non avessero mai a che fare con una introvabile “moderazione” dei primi. La memoria del Risorgimento come autentica epopea fondativa è stata infine distrutta dalla sua fascistizzazione in irredentismo, ignominia con cui si può accomunare un D’Annunzio a Pisacane. Ancora peggio con il secondo Risorgimento, la Resistenza antifascista. Evirata democristianamente nella retorica, viene ormai irrisa nel quotidiano codardo oltraggio dei media di regime.

Come stupirsi, allora, che nella penisola sia assente la Nazione e la Patria? L’Italia sarà Nazione solo se e quando una autentica rivolta morale, politicamente vittoriosa, riuscirà a rendere senso comune i valori che dal Risorgimento alla Resistenza hanno dato vita alla nostra Costituzione.

lunedì 7 marzo 2011

8 Marzo. Fatti dimenticati dai festeggiamenti e cerimonie del 150° anniversario dell’unità d’Italia.

Succede che 150 anni di storia si ritrovano in un giorno, che non è il 17 marzo, nascita dell'Italia unita, ma l'8 marzo, data simbolo che quest'anno per molte sarà il proseguimento di quel “Se non ora quando” che il 13 febbraio scorso ha visto la piazza riempirsi di un milione di donne (e di uomini) in tante città italiane.

Succede che 150 anni di narrazioni sul ruolo delle donne nella vita del Paese diventano autonarrazione delle donne sul loro ruolo nella società italiana.



A questo proposito, nella nostra storia, nel periodo a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento sono avvenuti fatti misconosciuti o ignorati che però hanno lasciato un segno indelebile rispetto alle conquiste sociali, politiche ed economiche delle donne.



Vorrei ricordare un fatto terribile accaduto il 15 marzo 1924, in una fabbrica di fiammiferi, avvenne un terribile incidente in cui persero la vita 21 persone. La maggior parte erano piccole operaie, anzi, erano bambine (tra i 12 e i 15 anni).



Quelle povere ragazzine venissero ricordate, magari con l’intestazione di una via, una lapide, ma ahimè a più di ’80anni nulla è successo di tutto questo, tutto e passato nel dimenticatoio, anche nel piccolo paese di Rocca a pochi chilometri da Torino, tra le colline moreniche delle Vaude, non esiste traccia dell’accaduto…

Unica testimonianza un libro di 64 pagine con 7 foto d'epoca, edito nel 1999 da Carlo Boccazzi Varotto scrittore.

In quel periodo si parlava di prevenzione e sicurezza nei luoghi di lavoro? Forse per questo, per non scuotere la pubblica opinione dell'epoca come quella di oggi, sul disastro di “Rocca Canavese” è calato l'oblio……




Da “La Stampa”

Era una bella squadra di artiglieri, la loro. Il pomeriggio dello scoppio, il campo per le esercitazioni di San Mauro era tranquillo, i cannoni e i mortai riposavano. Udirono un rumore fortissimo.

Un artigliere, di esplosioni, ne capisce: a Rocca Canavese era successo qualche cosa.

Pochi minuti per raccogliere le idee, pochi minuti per ricevere istruzioni.

Arrivarono nel paese un’ora più tardi.

Ovunque c’era odore di carne bruciata e fosforo. Iniziarono a rimuovere le macerie.

Attorno alle 23 e 30 rinvennero i primi corpi e continuarono a estrarne per tutta la notte. A mezzogiorno del giorno dopo i corpi erano già 13, a quel punto salirono su un camion per tornare in caserma.

L’uno di fronte all’altro, si guardavano e, per la fatica, non riuscivano parlare.

Fu un ragazzo veneto a rompere il silenzio:

- Erano tutte bambine.

- È una zona povera, questa. Terra cattiva, poche industrie - tentò di spiegare un commilitone originario di Vauda.

- Va bin - intervenne il tenente - ma non si è mai visto conservare fosforo bianco, zolfo e clorato di potassio in un mulino: è una bomba.



Nei giorni successivi, come premio, furono mandati a casa in licenza.

Le vittime salirono a 21. Della vicenda di Rocca si parlò in tutta Italia.

I giornali raccontavano di una fabbrica, «misteriosa», «segreta», di capitali russi, svedesi, svizzeri.

Tre anni dopo, però, al processo era tutto più semplice: sul banco degli imputati c’erano un conte, un generale e un ingegnere. Il più esotico era nato a Grugliasco.



La notizia si era spostata nelle pagine locali.

Oramai congedato, una mattina, il tenete scoprì dal giornale che la vicenda di Rocca Canavese non aveva colpevoli.

Tutti assolti.

Quel mattino comprò un biglietto del treno per la Francia. Sola andata. Stringeva forte in tasca la piccola scatola di fiammiferi raccolta due anni prima tra le macerie della fabbrica a Rocca Canavese. Era in metallo e si era salvata dal fuoco. Un artigliere, di esplosioni, ne capisce.



(Articolo di Carlo Boccazzi Varotto, autore del libro LE PICCOLE FIAMMIFERAIE. Una tragedia del lavoro dimenticata, editore: Orso, 1999.)





http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/unastampa/hrubrica.asp?ID_blog=328

mercoledì 9 febbraio 2011

“Fra le Memorie e documenti inediti" 21 settembre 1870

Una pagina interessante dell'epoca risorgimentale e della storia del nostro paese emerge da un articolo che fotografa una Roma dal potere temporale dei Papi al potere dello Stato.

Tra gli altri articoli che si richiamano agli avvenimenti dell’Unità d’Italia ho trovato un documento inedito pubblicato in forma tascabile fuori commercio, stampato a Roma nell’aprile del 1961 in occasione del primo Centenario dell’Unità d’Italia a cura dell’ente nazionale biblioteche popolari e del ministro della pubblica istruzione del 1961 sen. Giuseppe Medici.

L’articolo, scritto dal giornalista Ugo Pesci (Firenze, 1842 - Bologna, 1908) non rivela notizie nuove o sconosciute, ma una preziosa fonte di testimonianza di com’era Roma in quel periodo, una narrazione semplice e popolare..

(Testo trascritto integralmente)

"GLI ITALIANI A ROMA Piazza San Pietro e il Vaticano".

Forse nessuno ha veduto la piazza di San Pietro e l'esterno del Vaticano nelle circostanze nelle quali io li vidi la prima volta, la mattina del 21 settembre 1870.

La sera prima, dopo le 11, incontrato Edmondo De Amicis nel caffè di piazza Colonna ribattezzato quel giorno con il nome di Cavour, trovata per caso una botte (carrozza con cavallo) vicino a piazza Venezia, allontanandoci dal festoso baccano delle vie principali, eravamo andati fino al Foro Romano ed al Colosseo, passando sotto il Campidoglio, attoniti dinanzi alla grandiosità degli avanzi di Roma antica, che ci appariva anche più solenne nel silenzio e nella oscurità della notte.
La mattina dopo, uscito di buon'ora dall'albergo d'Europa, salii in un'altra botte in piazza di Spagna e dissi al bottaio di accompagnarmi in piazza San Pietro.
II bottaro mi guardò sorpreso, e convintosi subito che non ero romano, mi disse in pretto abruzzese: « “Signurì... là ce stanno ancora li caccialepri!” (le guardie papaline)

Ma avendo ìo insistito, s’avvio per via Condotti, via Fontanella di Borghese, via dell'Orso; passò davanti all'antico albergo omonimo, nel quale il Montaigne alloggiò nel 1581, e sboccò di faccia alla mole Adriana lasciandosi dietro l'ora scomparso teatro Apollo.
A ponte San Angelo, sulla riva sinistra del Tevere, era di guardia una compagnia del 21" battaglione bersaglieri comandata dal capitano Boyer, un valoroso ufficiale piemontese, col petto coperto di medaglie, che a Firenze, da dove era venuto il battaglione, chiamavano il « capitano Fanfulla ».
Egli aveva la consegna di non lasciar passare il ponte a soldati, e di non permettere che si avvicinassero alla riva sinistra i pontifici, che si vedevano affollati dietro un cancello, dall'altra parte del ponte, all'ingresso di Castel Sant'Angelo allora forte e caserma.
Boyer volle dissuadermi dal proseguire; ma non l'ascoltai.
M'ero messo in testa di vedere che cosa accadeva nella così detta città Leonina: almeno in apparenza, ero un cittadino contro la cui libera circolazione non poteva esistere alcuna consegna, poiché altra gente andava e veniva per il ponte da una parte e dall'altra.
Passai davanti al cacciatore estero di sentinella al castello, infilai per Borgo, incontrando soldati papalini di varie specie, e domestici in livrea cardinalizia che parevano affrettarsi alla ricerca di un rifugio sicuro.

Le botteghe dei coronari erano semi aperte, e le cicoraie offrivano la toro fresca ed umida mercanzia alle donnette che uscivano da Santa Maria in Trasportina affrettando il passo.
Giunto in piazza Rusticucci sì presentò allo sguardo tutta la maestà della Basilica Vaticana e del palazzo pontificio: ma da quella prima impressione subito ne distrasse un altro spettacolo, davvero noti altrettanto maestoso, ma curioso e strano, tutt'intorno al porticato del Bernini e lungo la gradinata di San Pietro erano schierati fra i 5000 ed i 6000 uomini di varie truppe, che vi avevano bivaccato durante la notte: una batteria da campagna, con gli avantreni staccati ed i pezzi rivolti contro la città, stava davanti all'obelisco; il reggimento Zuavi davanti al portico a sinistra di chi guarda verso la facciata, al di là della fontana.

Le truppe a piedi avevano fatto i fasci d'armi, presso i quali si aggruppavano disordinate; un drappello di dragoni era appiedato con ì cavalli alla mano: sotto il portico fumavano qua e là nereggianti avanzi di legna bruciata, servita per il caffè od un primo rancio.

Molto avanti, verso piazza Rusticucci, erano riuniti parecchi ufficiali: altri gruppi se ne vedevano qua e là dispersi nel vastissimo spazio.
Non v'era, oltre i soldati, anima viva in tutta la piazza. Il bottaro, punto incoraggiato da quello spettacolo, aveva rallentato il trottarello della sua brenna: e poi si fermò addirittura col pretesto di domandarmi dove volessi andare.
Per non fare ruta vergognosa ritirata, lo tenni lì fermo a chiacchierare per due o tre minuti, durante i quali detti i n'occhiata distratta alla fcciata e alla cupola di Michelangelo, alla facciata del palano che appare di sghembo al di là del portico del Nonnini: poi dissi ai bottaro, di tornare indietro, ed egli si affrettò a coltane, frustando con entusiasmo la povera bestia sorpresa dall'ingiustificato maltrattamento.

Tornai, dopo tre o quattro giorni, in piazza San Pietro; visitai la Basilica nella quale entravano a flotte, e passeggiavano riverenti ed a bocca aperta per lo stupore quei buoni ragazzi de' nostri soldati: girai di fuori intorno al palazzo ed ai giardini corno allora si poteva, perché il quartiere dei Prati era una vasta estensione di ortaglie e di terreni abbandonati mal praticabile.

Visitai la Pinacoteca, le logge di Raffaello, i Musei, la Sistina, entrando in Vaticano con uno dei tanti biglietti rilasciati in quei giorni dal maestro dei Sacri palazzi apostolici alle nostre autorità militari, ed intestati al tenente colonnello Montreal del 57" fanteria, a cui non ho mai capito perché fosse toccato d'essere il gerente responsabile di tutti i visitatori del Vaticano.


Alcun tempo dopo potei anche procurarmi il permesso speciale necessario per visitare altre parti del palazzo, nascosto a chi è semplicemente munito di un biglietto ordinario: entrai ossequiato dagli svizzeri di guardia alla porta di bronzo, visitai i giardini, potei accompagnarmi a comitive di pellegrini, ed assistere ad alcuni solenni ricevimenti di Pio IX nella Sala Ducale.

Non ho mai verificato se esistano davvero in Vaticano 11.000 stanze; non ho mai contato le grandi sale e neppure i cortili; non ho mai misurato a passi i più lunghi corridoi come fanno le belle americane per verificare le indicazioni delle « guide ».
Ma il palazzo, o meglio dire quell'ammasso di palazzi, costruiti e sovrapposti l'uno all'altro in tempi tanto diversi, mi ha sempre fatto, rivedendolo, una maggiore impressione di grandiosità e d'imponenza.

Non ho mai veduto la residenza del Dalai Lama del Tibet, il palazzo di Potala in fama d'esser uno dei più grandi edifici de mondo; forse non l'hanno veduto neppure tutti coloro che hanno la pazienza di leggere questo libro, ma senza averlo veduto, si può scommettere che, se pur misurandolo a metri il palazzo di Lhasa ha dimensioni maggiori del Vaticano, non è davvero altrettanto imponente e grandioso.

Quando poi si pensa alle meraviglie dell'arte contenute nella residenza del pontefice romano; all'infinito popolo di statue che vi tiene stanza; ai sorprendenti monumenti di tutte le civiltà che vi hanno raccolto vani pontefici; al numero enorme di artisti insigni che hanno collaborato ad edificarla, ad ampliarla, ad ornarla di capolavori unici al mondo; si finisce per acquistare la immutabile convinzione che tutta questa inarrivabile magnificenza è stata creata ed esiste in forza di una idea veramente immensa; di tale immensità che sfugge alle nostre piccole menti critiche, e che l'ostentato disprezzo di chi non è arrivato neppure a comprenderne la grande importanza storica, rende anche più gigantesca...

Ugo Pesci.

giovedì 6 gennaio 2011

DERUBANO PURE GARIBALDI



DERUBANO PURE GARIBALDI - Gli appalti per i 150 anni dell’Unità d’Italia: 500
milioni sperperati in opere inutili, escort, auto blu e tangenti. Intanto gli eroi del Risorgimento sono ancora ingabbiati fra plastica e ponteggi.

Articolo de "Il Fatto quotidiano" del 6 Gennaio 2011.



DERUBANO PURE GARIBALDI.
di Lillo Marco.

Gli appalti per i 150 anni dell'Unità d'Italia: 500 milioni sperperati in opere inutili, escort, auto blu e tangenti.
Intanto gli eroi del Risorgimento sono ancora ingabbiati fra plastica e ponteggi Lino i 2 - 3 Sprechi e ritardi peril 150 dell'Unità d'Italia.
Bassi: niente da, festeggiare Mezzo miliardo di euro per opere che nulla hanno a che fare col Risorgimento e campo aperto alle cricche Mentre il monumento di Garibaldi è ancora coperto dalle buste di plastica di Marco Lillo Daia di consegna lavori: 16 marzo 2011.
Il cartello af fisso sul ponteggio che Imprigiona il monumento equestre ad Anita Garibaldi sul colle Gianicolo è l'ennesima of fesa del governo Berlusconi alla memoria di chi nel 1861 fece l'Italia e purtroppo oggi si trova ad essere celebrato da quel che resta degli italiani.
Ieri Umberto Bossi ha chiarito cosa pensa delle celebrazioni del 150esimo: "Non c'è niente da festeggiare", ha detto il ministro delle riforme, "l'Italia è divisa in due.
Chi sente che è una cosa positiva la festeggia, gli altri no".
Per vedere l'altra metà bisogna salire sul colle che vide nascere e morire la Repubblica romana. Il 150esimo è arrivato all'improvviso sul Granicolo e l'Italia di Bossi e Berlusconi si è presentata all'appuntamento con la storia con ritardo e sciatteria . II 9 febbraio il parco del Gianicolo. secondo il oroaramma delle celebrazioni tuttora pubblicato sul sito di Palazzo Chigi, doveva essere inaugurato in pompa magna. Quelgiorno fu proclamata nel 1849 la Reputi Mica romana.

E INVECE dopo avere sperperato mezzo miliardo di euro in opere che poco o nulla hanno a che fare con il Risorgimento sotto la guida di funzionari integerrimi come Angelo Balducci, Fabio De Santis e Mauro della Giovampaola, il governo Berlusconi si è ricordato all'ultimo momento che c'era un signore di nome Giuseppe Garibaldi, affiancato da una compagna di nome Anita, e da un gruppo di commilitoni, detti i mille, che più di 150 anni fa da queste parti avevano lottato e talvolta erano morti perla Patria.
Incredibile a dirsi i cantieri dei re stauri dei monumenti equestri dedicati all'eroe dei due mondi e ad Anita e gli 83 busti dei garibaldini, sono stati aperti il 3 dicembre scorso. Ovviamente l'inaugurazione del 9 febbraio salterà e la data della consegna lavori, co me dice il cartello scritto a penna, è slittata al 16 marzo, 24 ore prima della festa che vedrà al suo centro proprio il parco del Granicolo. Il capo della Struttura di missione per le celebrazioni di Italia 150, Giancarlo Bravi, ne fa una questione filosofica: Non è un ritardo ma una scelta. Volevamo far coincidere la consegna dei lavori con l'inaugurazione".
I restauratori all'opera sono meno entusiasti dell'appalto espresso: se avessimo avuto la possibilità di lavorare con più calma sarebbe stato meglio", spiega il titolare di una delle imprese che preferisce restare anonimo, "purtroppo l'incarico è arrivato all'ultimo momento. Per far prima la Presidenza del Consiglio ha creato tre appalti per tre società diverse. Consegneremo nell'ultimo giorno utile". I fondi per il programma di restaurazione dei "luoghi della memoria" come statue, ossari e luo *** ghi di eventi chiave del Risorgimento, sono arrivati solo alla fine del 2010. Molto dopo la realizzazione delle grandi opere che nulla hanno a che fare con i garibaldini ma che interessavano ai politici di destra e sinistra. Se oggi un turista arrivasse in Italia pervedercome il nostro Paese celebra gli eroi che lo crearono resterebbe basito. Mentre le toni-be dei garibaldini sono abbandonate nell'incuria e il monumento al condottiero in piazza Garibaldi a Napoli è ricoperto dalle scritte e circondato dall'immondizia, è stata realizzata ad Imperia con i soldi delle celebrazioni la pista ciclabile da 12 milioni di euro cara a Claudio Scajola. Per dare una patina di patriottismo alle pedalate dell'ex ministro nel suo feudo gli uomini della presidenza hanno rintracciato un passaggio da queste parti del genovese Mazzini. Mentre per giustificare la spesa di 31 milioni di curo per l'auditorium da 700 posti a Isernia (22 mila abitanti) sono tornati utili i fantasmi di sette garibaldini, uccisi in Molise. Molte opere non saranno terminate in tempo. Il capo della strut- II parco del Gianicolo a Roma con i busti degli eroi dei Mille è un cantiere selvaggio tura di missione Giancarlo Bravi sta lavorando bene ma deve scontrarsi con la programmazione insensata del Governo Prodi e con l'attuazione sprecona e - secondo i pm - corrotta dei funzionari nell'era Berlusconi. II bilancio è desolante: il progetto faraonico del palazzo del cinema di Venezia, caro a Massimo Cacciari, non sarà realizzato e l'amianto trovato nell'area imporrà una bonifica aggiuntiva di 10 milioni di curo. Forse l'auditorium di Firenze da 236 milioni, dal quale parte l'inchiesta sulla cricca, dovrebbe essere inaugurato a dicembre con un concerto. Ma il maestro Zubin Media si esibirà in uno stralcio' dell'opera (da 156 milioni) senza la mirabolante macchina scenica che arriverà dopo il 150esimo. Anche I 'auditorium di Isernia, caro all'ex ministro delle infrastrutture Antonio Di Pietro, non sarà terminato. Per far contento il sindaco la struttura guidata da Bravi consegnerà uno stralcio e forse si potrà tenere la messa inscena del Nabucco a dicembre.
Poi il cantiere riaprirà, se arriveranno altri dieci milioni di curo dopo i 31 milioni già spesi. Stavolta i soldi e il tempo non sono scuse valide.
La struttura di missione della presidenza del Consiglio è stata creata nel 2007. Per accelerare le procedure e saltare i controlli il governo Prodi concesse la corsia preferenziale dei grandi eventi, usata dai funzionari amici di Diego Anemone per farei propri affari personali. Il gruppo Anemone ha vinto l'appalto dell'allargamento dell'aeroporto di Perugia.
Una delle ragioni per le quali il primo capo della struttura di missione di Italia 150Angelo Balducci è stato arrestato è proprio la messa a disposizione da parte del consorzio ddl' aeroporto (composto andhe dalla società Redim 2002 della moglie di Diego Anemone) di un'automobile Bmw ANCHE gli avvocati Edgardo Azzopardi e Camillo Toro, rispettivamente amico e figlio del procuratore Achille Toro, coinvolto con loro nella fuga di notizie che indusse la Procura di Firenze ad accelerare gli arresti, hanno ricevuto consulenze dalle imprese esecutrici dei cantieri di Italia 150.
Mauro della Giovampaola, die prese il posto di Angelo Balducci al vertice della struttura di missione, quando arrivò a Venezia perla posa della prima pietra del palazzo del cinema, si vide recapitare in stanza al Gritti una escort dal solito Anemone.
E lo stesso destino toccò in sorte a Fabio De Santis, commissario perla realizzazione dell'auditorium di Firenze.
Non ci vuole molto a capire perché le opere faraoniche sono state privilegiate. Il povero Garibaldi e le restauratrici che stanno lavorando al freddo di gennaio per chiudere i lavori in tempo, non avevano escort da offrire.
Così l'eroe dei due mondi si ritrova allo scoccare del 150esimo ingabbiato e persino imbustato come una merendina. Mentre i Garibaldini sono stati incappucciati con buste dell'immondizia.
Se fosse ancora in carne e ossa e non inchiodato alla sua sella di bronzo, l'eroe dei due mondi scenderebbe dal cavallo e correrebbe dalla sua Anita per inveire contro il secondo tradimento dei suoi connazionali. Ancora una volta sul Gianicolo. Nel 1849 proprio per la delusione patita dai romani che lo lasciarono solo a combattere scrisse alla bella creola che aveva lasciato il marito nel Rio Grande per seguirlo scusandosi del carattere dei connazionali.
A vedere le zampe del cavallo di Anita corrosedall'incuria e sostenute dai tubi Innocenti, Garibaldi scriverebbe di nuovo "tu donna forte e generosa con die disprezzo guarderai questa ermafrodita generazione di italiani: questi miei paesani ch'io ho cercato di nobilitare tante volte e che sì poco lo meritavano'.