150 anniversario dell'Unità d'Italia...non fiori ma opere di bene...

sabato 19 marzo 2011

La memoria tradita del Risorgimento





Di Paolo Flores d'Arcais, (Il Fatto quotidiano, 16 marzo 2011)

“L’Italia è solo un’espressione geografica” sosteneva il conte Klemens Wenzel Nepomuk Lothar von Metternich-Winneburg-Beilstein (dal 1813 anche principe). “L’Italia è fatta, bisogna ora fare gli italiani”, dichiarò il patriota e scrittore Massimo Taparelli marchese d’Azeglio, quando decenni di sovversione rivoluzionaria mazziniana e garibaldina, e di abilità diplomatica cavouriana, umiliarono il cinismo del cancelliere dell’impero austro-ungarico.
Che viene riportato agli onori della riabilitazione, paradossalmente e vergognosamente, proprio durante le celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia: non da qualche grande storico in vena di rivisitazioni geopolitiche ma dall’ignorante berciare del padre di un “trota” e di schiamazzanti patrioti dell’evasione fiscale.

Spettacolo avvilente, reso possibile però anche da uno sfondo storico-antropologico: la “Nazione”, la “Patria”, gli italiani l’hanno sempre sentita assai poco. Perché non è mai divenuta identità comune, e anzi è stata spesso immiserita nella retorica propagandistica di governi e regimi, infangata per spedire milioni di giovani come carne da cannone in due “inutili stragi”.

L’identità di un Paese nasce dalla memoria condivisa. E una memoria condivisa è sempre e soltanto una memoria scelta. Non può essere mai costituita da “tutto il passato”, che è ovviamente contraddittorio, impregnato di lacerazioni e conflitti, frutto di valori antagonistici fino alla guerra civile. “Notre héritage n’est précédé d’aucun testament”, ha scritto uno dei più grandi poeti del novecento, René Char, esprimendo la verità dell’identità storica nella sua forma più essenziale e irrecusabile. Di che cosa essere eredi lo si sceglie, discriminando nel contraddittorio e incompatibile intreccio di eventi che ci hanno preceduti quelli che hanno per noi valore simbolico perché fondativo.

L’Italia democratica può diventare “Nazione” o “Patria” solo se sceglie di essere davvero erede di entrambi i due unici eventi fondativi del suo passato. Il Risorgimento, e quel secondo Risorgimento (come tale vissuto da tanti che vi sacrificarono la vita) che fu la Resistenza antifascista. Fino a quando queste due rotture storiche, e i valori che ne sono all’origine, non saranno interiorizzati come la propria comune eredità dai cittadini della penisola, fino a quando ogni nuova generazione, in famiglia, nella scuola, attraverso il tubo catodico, non crescerà sentendosi figlia del Risorgimento e della Resistenza, non ci saranno italiani e non ci sarà Italia, e il conte Klemens von Metternich avrà ogni agio di ghignare nella tomba.

Ma la memoria, per essere condivisa, non deve escludere nessuno. Deve accomunare tutto il passato, affratellare vincitori e vinti, replicano gli storici più o meno di regime, più o meno accademicamente titolati o improvvisati, i Mieli, i Romano, i Galli della Loggia, i Pansa. I garibaldini, dunque, ma anche i lazzaroni del cardinal Ruffo, i partigiani ma anche i giovani repubblichini di Salò, arriva a farnetica re qualcuno. Al contrario. Nessuna identità nazionale, dunque nessuna “Patria”, potrà mai nascere su valori che reciprocamente si escludono. Il confronto con la vicina Francia può essere illuminante.

Ogni edificio pubblico porta la scritta, spesso in lettere dorate, “Republique française: liberté, egalité, fraternitè”. Esclude cioè dalla memoria condivisa le masse che si rivoltarono contro la rivoluzione, i contadini che per la Vandea morirono, coraggiosamente e anche eroicamente, come è ovvio. L’identità della Nazione, della Patria, quella del “vive la France!” con cui il generale De Gaulle concludeva ogni suo discorso, viene riconosciuta esclusivamente nel testamento della rivoluzione, tanto che se ne adotta la bandiera e di un canto di insurrezione si fa l’inno nazionale. La rivoluzione è l’unica memoria comune, l’altra sarebbe solo memoria del tradimento della Nazione, benché della rivoluzione faccia parte il Terrore, la cui condanna è resa topograficamente esplicita: non una via o una piazza sono intitolate a Robespierre.

Identico discorso per la Resistenza. Il governo collaborazionista di Vichy è il tradimento per antonomasia, benché il maresciallo Petain venga insediato legalmente dal voto maggioritario di un parlamento liberamente eletto. De Gaulle, uomo di destra se ve ne fu uno, ha imposto l’equazione Resistenza eguale Patria e rifiuto della Resistenza eguale tradimento, e questa memoria condivisa ha avuto una tale efficacia che a tre generazioni di distanza la destra francese anche più becera preferisce (durerà?) perdere le elezioni pur di non accettare il sostegno dei Le Pen.

In Italia invece il Risorgimento è stato immediatamente edulcorato nella retorica. Il carattere eversivo, rivoluzionario, talvolta terroristico dei garibaldini e dei mazziniani è stato cancellato, benché Mazzini e Garibaldi fossero accomunati a Marx e Bakunin dalle polizie di tutto il mondo, e le divergenze reciproche non avessero mai a che fare con una introvabile “moderazione” dei primi. La memoria del Risorgimento come autentica epopea fondativa è stata infine distrutta dalla sua fascistizzazione in irredentismo, ignominia con cui si può accomunare un D’Annunzio a Pisacane. Ancora peggio con il secondo Risorgimento, la Resistenza antifascista. Evirata democristianamente nella retorica, viene ormai irrisa nel quotidiano codardo oltraggio dei media di regime.

Come stupirsi, allora, che nella penisola sia assente la Nazione e la Patria? L’Italia sarà Nazione solo se e quando una autentica rivolta morale, politicamente vittoriosa, riuscirà a rendere senso comune i valori che dal Risorgimento alla Resistenza hanno dato vita alla nostra Costituzione.

lunedì 7 marzo 2011

8 Marzo. Fatti dimenticati dai festeggiamenti e cerimonie del 150° anniversario dell’unità d’Italia.

Succede che 150 anni di storia si ritrovano in un giorno, che non è il 17 marzo, nascita dell'Italia unita, ma l'8 marzo, data simbolo che quest'anno per molte sarà il proseguimento di quel “Se non ora quando” che il 13 febbraio scorso ha visto la piazza riempirsi di un milione di donne (e di uomini) in tante città italiane.

Succede che 150 anni di narrazioni sul ruolo delle donne nella vita del Paese diventano autonarrazione delle donne sul loro ruolo nella società italiana.



A questo proposito, nella nostra storia, nel periodo a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento sono avvenuti fatti misconosciuti o ignorati che però hanno lasciato un segno indelebile rispetto alle conquiste sociali, politiche ed economiche delle donne.



Vorrei ricordare un fatto terribile accaduto il 15 marzo 1924, in una fabbrica di fiammiferi, avvenne un terribile incidente in cui persero la vita 21 persone. La maggior parte erano piccole operaie, anzi, erano bambine (tra i 12 e i 15 anni).



Quelle povere ragazzine venissero ricordate, magari con l’intestazione di una via, una lapide, ma ahimè a più di ’80anni nulla è successo di tutto questo, tutto e passato nel dimenticatoio, anche nel piccolo paese di Rocca a pochi chilometri da Torino, tra le colline moreniche delle Vaude, non esiste traccia dell’accaduto…

Unica testimonianza un libro di 64 pagine con 7 foto d'epoca, edito nel 1999 da Carlo Boccazzi Varotto scrittore.

In quel periodo si parlava di prevenzione e sicurezza nei luoghi di lavoro? Forse per questo, per non scuotere la pubblica opinione dell'epoca come quella di oggi, sul disastro di “Rocca Canavese” è calato l'oblio……




Da “La Stampa”

Era una bella squadra di artiglieri, la loro. Il pomeriggio dello scoppio, il campo per le esercitazioni di San Mauro era tranquillo, i cannoni e i mortai riposavano. Udirono un rumore fortissimo.

Un artigliere, di esplosioni, ne capisce: a Rocca Canavese era successo qualche cosa.

Pochi minuti per raccogliere le idee, pochi minuti per ricevere istruzioni.

Arrivarono nel paese un’ora più tardi.

Ovunque c’era odore di carne bruciata e fosforo. Iniziarono a rimuovere le macerie.

Attorno alle 23 e 30 rinvennero i primi corpi e continuarono a estrarne per tutta la notte. A mezzogiorno del giorno dopo i corpi erano già 13, a quel punto salirono su un camion per tornare in caserma.

L’uno di fronte all’altro, si guardavano e, per la fatica, non riuscivano parlare.

Fu un ragazzo veneto a rompere il silenzio:

- Erano tutte bambine.

- È una zona povera, questa. Terra cattiva, poche industrie - tentò di spiegare un commilitone originario di Vauda.

- Va bin - intervenne il tenente - ma non si è mai visto conservare fosforo bianco, zolfo e clorato di potassio in un mulino: è una bomba.



Nei giorni successivi, come premio, furono mandati a casa in licenza.

Le vittime salirono a 21. Della vicenda di Rocca si parlò in tutta Italia.

I giornali raccontavano di una fabbrica, «misteriosa», «segreta», di capitali russi, svedesi, svizzeri.

Tre anni dopo, però, al processo era tutto più semplice: sul banco degli imputati c’erano un conte, un generale e un ingegnere. Il più esotico era nato a Grugliasco.



La notizia si era spostata nelle pagine locali.

Oramai congedato, una mattina, il tenete scoprì dal giornale che la vicenda di Rocca Canavese non aveva colpevoli.

Tutti assolti.

Quel mattino comprò un biglietto del treno per la Francia. Sola andata. Stringeva forte in tasca la piccola scatola di fiammiferi raccolta due anni prima tra le macerie della fabbrica a Rocca Canavese. Era in metallo e si era salvata dal fuoco. Un artigliere, di esplosioni, ne capisce.



(Articolo di Carlo Boccazzi Varotto, autore del libro LE PICCOLE FIAMMIFERAIE. Una tragedia del lavoro dimenticata, editore: Orso, 1999.)





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